BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'


Chimica a due facce.
Luigi Campanella, già Presidente SCI
A caccia di casi di specie che dimostrino quanto sia vero parlare di 2 volti della Chimica ho trovato quest’altro dato.
Il TiO2 è universalmente accettato come un foto-catalizzatore efficace: in presenza di opportuna radiazione UV produce vacanze elettroniche nella sua banda di valenza ed eccessi elettronici nella sua banda di conduzione (band-gap di 3.25 eV). Questi, le une e gli altri, reagiscono con O2 e H2O producendo ROS, ossia specie radicaliche dell’ossigeno, idrossido, perossido e superossido in grado di attaccare le molecole di molti composti con la conseguente loro degradazione, quindi con una possibile applicazione sul piano ambientale ed igienico sanitario.
Purtroppo man mano che la degradazione procede la sua efficienza diminuisce. Si è così trovato che l’aggiunta di fluoro, il tanto temuto elemento dei PFAS, sia assorbito in superficie del TiO2, sia aggiunto come drogante nella sua struttura, consente di superare questo inconveniente garantendo una prolungata efficienza al processo di fotodegradazione.
La faccia buona del diossido di titanio ha però anche un altro connotato. Fa riferimento al suo impiego come colorante classificato E171 utilizzato in molteplici applicazioni a partire da componente di pitture e quadri, anche se solo moderni vista la giovane età di questo colorante; ad essi conferisce luminosità e opacità, la stessa attività che svolge verso i rivestimenti in resina. Anche le applicazioni cosmetiche rispondono al criterio delle due facce: da un lato utilizzato come filtro solare per proteggerci dai pericolosi raggi UV responsabili del melanoma, aggressivo tumore della pelle, dall’altro agente di reazioni cutanee come dermatiti, eczemi, allergie, o addirittura di invecchiamento e infiammazioni croniche della pelle, per non parlare della sua cancerogenicità dermica, tanto che l’uso in questo campo è stato vietato dal 2024. Ancora una chimica singolarmente a due facce: per prevenire il melanoma dovuto ai raggi UV si usa per protezione un composto potenzialmente cancerogeno!!
Oggi però a rinforzare la seconda faccia, quella cattiva del TIO2, arrivano i risultati di una ricerca pubblicata da istituzioni di ricerca francesi (CNRS, INRAE, AP-HP) che evidenzia come questo composto sia ritrovato nel quasi 90%di un set di campioni di latte materno, animale o industriale.

Tenuto conto che si tratta di un composto vietato per uso alimentare sin dal 2022 questa scoperta non può che essere collegata ad una ubiquitarietà del composto in questione che contamina suoli ed acque. Questo dato non può non preoccupare tenuto conto della cancerogenicità del TiO2 e del fatto che i consumatori del latte materno sono neonati, quindi soggetti appena venuti alla vita, quindi non ancora sviluppati per resistere alle insidie dirette alla propria salute.
La ricerca è stata eseguita impiegando come tecniche analitiche Fluorescenza X e Spettrometria di Massa al fine di individuare micro e nano particelle del TiO2 nei campioni di latte. Con queste tecniche i ricercatori hanno ricercato nel latte materno composti dai nomi non noti al consumatore medio, ma ben noti in ambito scientifico in quanto derivati del TiO2, tra i quali rutilo ed anatasio, entrambi ossidi, ilmenite (FeTiO3), titanite (CaTiSiO5), pseudo-brookite (Fe2Ti05).
Quasi tutti (90%) i campioni di latte materno analizzati, liquidi o in polvere, biologici o meno, pastorizzati o no, sono risultati positivi al test contenendo da 6 milioni a 4 miliardi di nanoparticelle di TiO2, a seconda del tipo di campione. Il commento degli autori è particolarmente preoccupante: fra concentrazione nell’ambiente e presenza nel latte materno del TiO2 c’è un gap che impedisce la correlazione fra i 2 dati: ma allora la fonte deve essere un’altra e deve essere trovata al più presto tenuto conto della tossicità del composto, anche per gli adulti, e che il suo impiego in vernici, materiali di vario tipo, rivestimenti è in continua crescita.
Il consumo mondiale di biossido di titanio (TiO₂) nel 2024 è stato valutato in oltre 21,49 miliardi di dollari e si stima che supererà i 48 miliardi entro il 2037, con una crescita media annua (CAGR) superiore al 6,4%. La crescita è trainata dall’aumento della domanda di vernici e rivestimenti, settori chiave per l’utilizzo del TiO₂, soprattutto in Asia-Pacifico a causa della rapida industrializzazione e dell’edilizia.
C’è stata vita su Marte?
Diego Tesauro
Da Epicuro a Giordano Bruno, da Kant a Hegel, sono molti i filosofi che si sono interrogati, talvolta in modo scettico, altre volte meno, sulla possibile esistenza di forme di vita extraterrestre.
Nel XIX secolo a seguito della scoperta dei canali da parte di Schiapparelli, con le maggiori somiglianze con la Terra rispetto agli altri pianeti del Sistema Solare, Marte è stata ipotizzata come la sede della vita alternativa alla Terra più vicina a noi. Anche la fantascienza e l’arte vedeva in Marte il pianeta in cui vivevano gli “omini verdi”. Nel romanzo “Sotto le lune di Marte” lo scrittore Edgar Rice Burroughs descrisse varie specie di Marziani, tra cui una razza con la pelle verde e nella famosa Guerra dei Mondi nel 1938, Orson Wells faceva una radiocronaca dello sbarco dei marziani in una cittadina del New Jersey. In realtà già dall’inizio del XX secolo si era compreso che su Marte, date le condizioni attuali dell’atmosfera, estremamente rarefatta (al suolo la pressione è di 4 mbar) e composta dal diossido di carbonio, al massimo potevano essere presenti forme di vita unicellulare nel suolo.
Su queste basi, durante la missione Viking nel 1976, toccando il suolo di Marte, furono effettuati esperimenti basati sulla somministrazione di amminoacidi, acido glicolico, lattato e carboidrati in entrambe le forme levogira e destrogira per verificare se si producessero ossidi di carbonio, generati dal metabolismo di possibili microbi presenti nel suolo marziano. I risultati, discutibili all’epoca, non diedero una risposta univoca, ma successivamente si è esclusa la presenza di attività microbica.
Ciò che però non ci si aspettava era che uno strumento principale a bordo dei lander, il gascromatografo-spettrometro di massa, non rilevò alcuna materia organica. Questa fu una sorpresa per gli scienziati, che sapevano che il materiale organico veniva depositato sulla superficie marziana da comete e meteoriti. L’apparente assenza di molecole organiche nel materiale superficiale marziano è diventata un mistero scientifico per decenni. Nel 2008, la sonda spaziale Phoenix esplorò il polo nord di Marte. Phoenix scoprì la presenza del perclorato sul suolo marziano, raro sulla Terra. Dopo ulteriori conclusioni sulla presenza di questo sale su Marte e esperimenti complementari sulla Terra, gli scienziati ipotizzarono che questo sale potesse aver clorurato eventuali sostanze organiche all’interno degli strumenti Viking. Effettivamente negli esperimenti del Viking è stato possibile individuare un prodotto di reazione tra il sale e le sostanze organiche presenti nel forno Viking, il clorobenzene, una molecola organica clorurata [1]. La presenza del perclorato aveva qualche anno fa spinto un gruppo di ricerca tedesco a dimostrare la possibilità di forme di vita estremofile quali gli Archea capaci di sopravvivere in queste condizioni di cui ci siamo occupati in un altro post .
Accertata la presenza di sostanze organiche, da allora tutte le missioni spaziali hanno avuto come obiettivo oltre a quello di dimostrare l’esistenza di sostanze organiche, se in passato ci fosse stata della vita microbica, rilevando un’origine biotica delle molecole. In questo scenario si inserisce la missione NASA Mars 2020. Il rover Perseverance sta esplorando il cratere marziano Jezero, in quanto è uno dei luoghi più promettenti per l’identificazione di vita extra-terrestre nel passato del pianeta rosso. Il cratere corrisponde ad un’antica area che un tempo ospitava un lago e che in passato potrebbe aver avuto un alto potenziale di abitabilità. Rilevare materia organica è fondamentale per valutare la possibile abitabilità passata ed identificare potenziali biosignature, poiché composti organici semplici possono essere nutrienti per la vita e composti organici complessi possono fornire evidenze dirette di biogenicità.
I risultati sono stati oggetto di una recente pubblicazione su Nature Astronomy [2].
Per poter effettuare le analisi, a bordo del rover, è stato utilizzato lo strumento Scanning Habitable Environments with Raman and Luminescence for Organics and Chemicals (SHERLOC), uno spettrometro Raman e di fluorescenza nel profondo UV (DUV). I risultati sono stati paragonati a quelli ottenuti in laboratorio (a cui ha collaborato un laboratorio dell’Università Federico II) effettuando le stesse analisi con precursori sintetizzati ad hoc. In particolare un confronto tra il set di dati di laboratorio e le osservazioni SHERLOC nella zona QRT (parte della formazione rocciosa Séítahe dove è “ammartato” Perseverance ) e sul campione Pilot Montain (PMT) ha mostrato che diversi tipi di composti organici aromatici sono presenti nei solfati come il naftalene, l’1- e 2-naftolo (HN), 1,3- e 2,6-diidrossinaftalene (DHN), il 9-metilantracene (9-MA), l’uracile e un polimero di idrocarburo aromatico ossi-policiclico (IPA) sintetizzato da 1-HN (poli1-HN) – presentano intense bande di strechting dell’anello C–C e C=C (e bande di allungamento C=O nel caso di composti come l’uracile con gruppi funzionali carbonilici sull’anello aromatico) in diverse posizioni all’interno delle regioni spettrali di interesse. Ci si pone quindi il problema dell’origine di queste molecole e si prefigurano 4 scenari (Figura 1). Lo scenario 1a descrive un processo igneo in situ per la formazione di IPA a partire da gas magmatici intrappolati nei pori delle rocce ignee del cratere Jezero, ed in seguito conservati nei solfati precipitati a seguito dell’alterazione acquosa, che potrebbe essere coerente con l’origine della zona da cui proviene il campione QRT. Lo scenario 1b descrive un processo igneo ex situ per la formazione di IPA verificatosi all’esterno del cratere Jezero, e solo successivamente trasportati verso il cratere Jezero, dove gli IPA potrebbero essere stati coprecipitati con i sali solfati o intrappolati e conservati all’interno dei cristalli. Questo scenario potrebbe essere coerente con le osservazioni sia del campione QRT che del PMT, e con l’accumulo selettivo di IPA in queste rocce al posto del carbonio macromolecolare (MMC) a causa della sua minore mobilità nelle fasi fluide. Lo scenario 2 descrive un potenziale meccanismo idrotermale per la formazione di IPA e il successivo trasporto da parte di acque sotterranee idrotermali che potrebbe essere correlato all’idrotermalismo regionale associato al vulcanismo della Syrtis Major. Lo scenario 3 descrive un potenziale processo di rilascio esogeno di IPA o di produzione durante processi di impatto d’urto. Lo scenario 4 descrive una potenziale origine biotica degli IPA come prodotti di degradazione chimica di antichi composti biotici.

Figura 1 Schema dei 4 scenari proposti dai geochimici del lavoro di Nature Astronomy. Le frecce verdi indicano i meccanismi di formazione in situ, mentre le frecce blu indicano i meccanismi di formazione ex situ. Le posizioni dei target QRT e PMT nel cratere Jezero sono mostrate in un’immagine acquisita dalla telecamera stereo ad alta risoluzione a bordo della sonda orbitante Mars Express dell’ESA. Credit: background image, ESA/DLR/FU-Berlin/NASA/JPL-Caltech
I risultati ottenuti sono coerenti con gli studi sui meteoriti marziani e le osservazioni dal cratere Gale e rafforzano l’ipotesi che i solfati potrebbero essere cruciali nella conservazione e nel trasporto di molecole organiche nell’ambiente marziano e, quindi, potrebbero aver svolto un ruolo significativo nel ciclo del carbonio marziano, influenzando la disponibilità e il ciclo dei composti del carbonio necessari alla vita.
Nonostante la rilevanza dei risultati alla domanda che ci siamo posti all’inizio su una possibile presenza di vita nel passato di Marte, non si può associare una risposta definitiva. E’ necessario stigmatizzare i titoli dei quotidiani e dei siti internet, che per catturare l’attenzione del lettore, riportano nel titolo argomentazioni diverse da quelle correttamente riportate negli articoli. Considerati i limiti delle tecniche di spettroscopia Raman e di fluorescenza di Perseverance, intrinsecamente meno diagnostiche dei metodi di spettrometria di massa utilizzati dal rover Curiosity, che forniscono identificazioni chimiche più definitive, le diverse ipotesi richiederebbero ulteriori studi di laboratorio. Questi studi potrebbero ricostruire i processi di alterazione chimica che potrebbero essersi verificati nel cratere Jezero nel tempo e che hanno portato alla formazione delle sostanze organiche osservate. Una risposta più chiara si potrà avere quando i campioni torneranno sulla Terra nell’ambito della Mars Sample Return Campaign per analisi ad alta sensibilità in laboratori terrestri.
Bibliografia
[1]Guzman, M. et al. Journal of Geophysical Research: Planets. 2018, 123, 1674-1683. 10.1029/2018JE005544
[2] Fornaro T. et al. Nature Astronomy https://doi.org/10.1038/s41550-025-02638-z
Esplosioni subacquee.
Claudio Della Volpe
Pochi giorni fa i giornali hanno reso noto l’arresto, avvenuto in Italia, di un cittadino ucraino considerato il coordinatore responsabile delle esplosioni che hanno distrutto o reso inattivi i due gasdotti che portavano gas dalla Russia alla Germania.
Secondo i giudici tedeschi che ne hanno ordinato l’arresto con un mandato internazionale costui, un agente segreto tale Kuznietsov, “posizionò almeno quattro ordigni esplosivi”, ciascuno tra i 14 e i 27 kg, composti da esogene (Rdx) e ottogene (Hmx) con micce a tempo, a nord-est e a sud-est dell’isola di Bomholm, a una profondità di 70-80 metri sul fondale dei gasdotti.
Una valutazione inferiore a quella fatta su Wikipedia alla voce https://it.wikipedia.org/wiki/Sabotaggio_dei_gasdotti_Nord_Stream, dove si parlava di esplosivi simili (il C4 è una formulazione contenente RDX e plasticizzanti) ma in quantità nettamente superiore per giustificare la forza delle esplosioni registrate.
Nel raccontare questa storia, che forse qualcuno aveva dimenticato, e che conferma che dopotutto “la guerra è una continuazione della politica”, come diceva qualcun altro, la Chimica è entrata di prepotenza, perché le esplosioni sono state realizzate usando i due esplosivi dal nome suggestivo di esogèno ed ottogène, definiti come nomi chimici, ma che non sono che nomi comuni di due molecole
Esogène o esanitrodifenilammina o RDX

Ottogène o ciclotetrametilentetranitroammina o HDX

Questo ci da l’occasione di fare due parole sugli esplosivi e sui loro effetti subacquei, che come vedremo sono alquanto spettacolari.
Anzitutto ricordiamo cosa è un esplosivo o un’esplosione: è una reazione di ossidoriduzione che avviene velocemente fra un’ossidante e un riducente in genere o in una molecola che contenga entrambe le funzioni con la produzione di calore e di un’onda d’urto (dovuta alla generazione di gas) che producono insieme gli effetti desiderati. Una combustione rientrerebbe in questo tipo di definizione ed infatti molti esplosivi sono semplicemente dei combustibili che bruciano velocemente nell’ambiente ossidante dell’atmosfera; ma non tutti sono così.
Ci sono poi un paio di altri punti da tener presente per una analisi di base.
- La velocità dell’esplosione: La deflagrazione è un processo di combustione rapidissima ma subsonica (più lenta del suono), mentre la detonazione è un processo ancora più rapido e violento, con una propagazione supersonica (più veloce del suono), accompagnata da un’onda d’urto e pressioni molto più elevate. La differenza fondamentale è la velocità di propagazione dell’onda di pressione generata dalla reazione che ovviamente provoca effetti molto diversi.
- Il bilancio di ossigeno: dato che l’ossigeno è l’ossidante comune in atmosfera un esplosivo può sfruttarlo; si dice che un esplosivo ha un bilancio di ossigeno positivo se nella sua molecola c’è più ossigeno di quel che serve per ridurre tutti i suoi componenti alla forma ossidata finale (acqua, CO2, NOx etc), mentre il bilancio può anche essere negativo o nullo; quest’ultimo caso è il migliore perché la reazione può avvenire in qualunque ambiente e con i rapporti ottimali fra i reagenti.

Sia RDX, HDX (a volte indicato come HMX) che C4 hanno bilancio di ossigeno negativo. Alcuni sono mostrati nell’immagine qua sopra.
Devo dire un’ultima cosa, che mi ha colpito; nel preparare questo post (cosa che come sempre mi comporta un po’ di lavoro di approfondimento) mi sono reso conto che nei testi scientifici invece di scrivere esplicitamente esplosivo si usa spesso una diversa definizione, quasi che questo potesse rendere meno “ostico” l’argomento o più neutro.
Questi materiali vengono definiti “high energy density materials”, (HEDS, un bell’acronimo non si nega a nessuno) materiali ad alta densità energetica e si dice che il loro uso può essere bellico ma anche nell’industria aerospaziale, come propellenti o casomai nell’industria del divertimento (i fuochi di artificio); nulla mi toglie dalla testa che questa pur giusta definizione, tecnicamente giusta, abbia un contenuto “ideologico”, neutralizzante, del tipo; la scienza inventa cose, ma poi gli uomini possono usarle bene o male; anche questo messo così è vero, ma il punto basilare è perché si inventano le cose, cosa spinge a farlo, le domande da cui queste scoperte sono mosse, le risorse che vengono messe a disposizione e da chi.
Personalmente credo che in questo senso preciso la scienza non sia o non sia più neutra. Lo è stata per un certo tempo (forse), ma al momento l’uso della forza è una spinta troppo radicale per trascurarne gli impatti sul nostro lavoro, che ne è fortemente influenzato, perfino NEI CONTENUTI (argomento discutibile, ma ci tornerò in altri post).
Torniamo al nostro argomento.
Una esplosione sott’acqua è diversa da una in aria; per vari motivi: 1) non c’è ossigeno disponibile, dunque un esplosivo a bilancio di ossigeno negativo è sfavorito, non può esplicare la sua potenza appieno, ne serve di più 2) l’acqua è incomprimibile e dunque qualunque onda di pressione è trasportata più efficacemente che in aria, anche se l’inerzia della massa da spostare è parecchio più alta ed infine l’innesco è reso più difficoltoso.
Alcune di queste cose ed i loro effetti sono mostrati nei video spettacolari mostrati nella pagina di ZMEscience indicata in fine del post. Analogamente l’altra pagina web di Youtube mostra alcuni esperimenti di combustione ed esplosione in microgravità, che aiutano a comprendere come le forze agiscano sul sistema in esplosione e come la gravità abbia un ruolo che non capiamo a prima vista, sulla geometria degli effetti.
Questi aspetti tecnici possono aiutarci a districare la matassa politica che c’è dietro l’esplosione?
In piccola parte; nel senso perché usare due esplosivi solo in parte adeguati, con bilancio di ossigeno negativo e dovendone usare di più? Certo sono esplosivi diffusi, comuni in ambito militare e anche sicuri per chi li mette in posizione, in ambienti ostili come sott’acqua.
Quindi la loro scelta potrebbe essere stata indirizzata sia da motivi di praticità che di opportunità e questo vale chiunque ne sia stato l’attore; secondo Seymour Hersch, famoso giornalista americano che ha vinto il premio Pulitzer, gli attentati furono messi in campo dagli USA, ma potrebbero aver usato agenti ucraini; la scelta degli esplosivi senza riscontri tecnici approfonditi condotti in loco non può dare molto aiuto.
Lo sapremo quando tutta la storia si sarà sedimentata e resa non segreta come certamente è ancora adesso nei documenti ufficiali.
In quegli impianti c’erano anche soldi europei e dunque nostri, un po’ di chiarezza in merito non farebbe male.
Consultati:
https://www.chimicifisicicampania.it/image/catalog/Chimica%20esplosiva_Trifuoggi_Salerno%2014122019.pdf una bellissima presentazione del collega Marco Trifuoggi di UniNa, tenuta a Salerno nel 2019, che vi consiglio per la chiarezza e completezza espositiva.
https://www.zmescience.com/feature-post/underwater-explosion-feature/una pagina veramente esplosiva, fatta di brevi video ad altissima velocità che scoprono gli effetti più spettacolari delle esplosioni subacquee, molto interessante.
fra gli esperimenti più spettacolari fatti sulla stazione spaziale o in microgravità e che svelano alcuni aspetti trascurati delle fiamme e delle esplosioni.
https://docente.unife.it/paolo.pini/la-guerra-provocata/un-anno-di-bugie-sul-nord-stream-di-seymour-hersh/view https://en.wikipedia.org/wiki/RDX https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2667134421000444La chimica del Leone di San Marco
Luigi Campanella, già Presidente SCI
Gli indicatori isotopici sono il rapporto tra diversi isotopi stabili di un elemento chimico, utilizzato per studiare il movimento e l’origine di sostanze in vari contesti, tra cui l’ambiente, gli alimenti e la geologia. Elementi come carbonio, ossigeno, idrogeno, azoto e zolfo hanno isotopi stabili (ad esempio, 12C e 13C) in proporzioni variabili in natura.

https://pubs.acs.org/doi/pdf/10.1021/es504683e?ref=article_openPDF
Le piccole deviazioni in questi rapporti, rispetto a standard internazionali, sono cruciali per differenziare i campioni e tracciare i percorsi. I campioni vengono trasformati in gas (come CO2) e analizzati tramite uno spettrometro di massa per determinare il rapporto tra gli isotopi. I risultati vengono espressi come valore δ in parti per mille (‰).
L’analisi di questi rapporti, permette di tracciare cicli geochimici, identificare frodi alimentari, monitorare l’inquinamento e studiare i cambiamenti climatici passati, come si osserva nella stratigrafia isotopica.
Oggi questa tecnica analitica, che nei libri storici di Analisi Chimica rientrava nei metodi radiochimici (gli altri erano gli ottici, i cromatografici, gli elettrochimici) è risultata preziosa in mano ai ricercatori dell’Università di Padova e dell’ISMEO di Roma per dirimere una questione storica e culturale insieme circa la provenienza del Leone in bronzo che si erge in cima a una delle due grandi colonne della Piazzetta di Piazza San Marco a Venezia.

Per esso allo stesso tempo valgono tre considerazioni: rappresenta il Leone Alato veneziano, potente simbolo di sovranità, fu installato in un periodo di incertezza politica nell’Europa mediterranea medievale, le sue caratteristiche non riflettono le convenzioni artistiche locali
Molte speculazioni circondano le origini e l’identità culturale del grande ‘Leone’. Le ipotesi sulle sue origini includono una fonderia veneziana del XII secolo d.C. (Pilutti Namer 2013 ) o una località non specificata in Anatolia o nella Siria settentrionale nel periodo ellenistico (323-30 a.C.) (Ward Perkins 2015), con possibili influenze romaniche, gotiche, assire, etrusche, sassanidi e cinesi (Elam1990 ).
BM Scarfì (Scarfì1990 ) considerava il “Leone” un’interpretazione ellenistica dei grifoni mesopotamici o persiani con testa di leone, realizzati nel IV o III secolo a.C. come veicolo di Sandon, divinità della città di Tarso in Turchia, raffigurato sulle monete in groppa a un grosso gatto cornuto.

Oggi la provenienza cinese orgoglio dei veneziani e della discendenza da Marco Polo trova, grazie alla Chimica, una conferma. Partendo da parallelismi stilistici che si trovano nella Cina della dinastia Tang (618-907 d.C.) ed utilizzando l’analisi degli isotopi di piombo, viene dimostrato che la figura è stata fusa con rame isotopicamente compatibile con il minerale proveniente dal bacino del Basso Fiume Azzurro (il fiume Yangtzi)*.
È possibile che il padre e lo zio di Marco Polo, durante i quattro anni trascorsi alla corte di Kublai Khan durante il loro primo viaggio, siano stati responsabili dell’acquisizione della scultura. Al di là dello specifico risultato acquisito in questo caso da chimico non posso non essere orgoglioso del ruolo della nostra disciplina nel tramandare e sostenere le tradizioni culturali così contribuendo anche a difendere le identità storiche e ad educare i giovani al rispetto del proprio passato, come irrinunciabile componente del presente e del futuro, rispettivamente come insegnamento e come progetto.
Da leggere anche le conclusioni del lavoro di Artioli et al.
Contrariamente alle narrazioni tradizionali che ipotizzavano una produzione locale, anatolica o siriana, riteniamo che il muso e la criniera della creatura ibrida in bronzo presentino somiglianze con lo zhènmùshòu della dinastia Tang (anche se, in linea di principio, non si possono escludere confronti con sculture cinesi precedenti e successive). È possibile che il padre e lo zio di Marco Polo, durante i quattro anni trascorsi alla corte di Kublai Khan durante il loro primo viaggio, siano stati responsabili dell’acquisizione della scultura. L’analisi degli isotopi di piombo del bronzo conferma l’origine cinese, identificando probabili fonti di rame nella regione del basso fiume Yangzi. A causa della sconcertante assenza di informazioni scritte, le intenzioni e la logistica alla base del suo viaggio verso Venezia rimangono elusive e aperte all’interpretazione. Se l’installazione del “Leone” aveva lo scopo di inviare un forte messaggio politico difensivo, ora possiamo anche leggerla come un simbolo dell’impressionante interconnessione del mondo medievale.
* Il Fiume Yangtzi non è azzurro nel colore dell’acqua, ma viene definito così dagli occidentali per la sua bellezza, trasparenza e per il colore che assume verso il tramonto, quando sembra confondersi con il cielo. Il nome originale cinese è “Chang Jiang”, che significa “Lungo Fiume”,
La negazione della negazione.
Claudio Della Volpe
Credo che Guido Barone, un nostro collega di Napoli scomparso qualche anno fa (nel giugno del 2016) mi avrebbe dato ragione per aver scelto il titolo di questo post. Guido non era solo uno scienziato, era uno scienziato che non aveva paura della filosofia e nel caso specifico della dialettica, l’idea che era alla base di parecchia della filosofia del XVIII e XIX secolo: diceva sempre Ogni cosa nel mondo ha due corni, in sostanza riconoscendo la natura complessa e contraddittoria della realtà.
La CO2, un gas naturale, su cui è basata la vita sulla Terra: contribuisce in modo determinante al mantenimento della temperatura del pianeta, serve alla fotosintesi e si trasforma nel manto verde che ricopre il pianeta, ma è anche il prodotto delle combustioni di tutti i fossili che estraiamo dalla terra e che una volta, in origine erano appunto CO2 gassosa, trasformata dall’azione delle piante e dei batteri e dalle forze geologiche.
Solo che, dato che la quantità diventa qualità (avrebbe sempre detto Guido, non io), troppa CO2 immessa in atmosfera tutta insieme produce danni enormi e si trasforma da molecola preziosa in molecola rischiosa; alcuni addirittura la confondono con le sostanze tossiche che pure si trovano in atmosfera (e questa è una sciocchezza). Il trucco, avrebbe aggiunto un altro chimico “diverso”, che amava le contraddizioni, Enzo Tiezzi, sta nel tempo; il tempo storico brevissimo in cui bruciamo, confligge con quello biologico lunghissimo in cui il ciclo del carbonio si svolge naturalmente.
Questa sarebbe la negazione, una molecola naturale preziosissima, che passando per l’azione umana diventa il suo contrario: un gas climalterante che non riusciamo a controllare più e che sta alterando la temperatura planetaria e il pH oceanico con danni enormi.
E già, direte voi, passi pure sta voglia di filosofare; ma la negazione della negazione che sarebbe?

Beh per capire questo vi ricordo un libro scritto pochi anni fa da uno di noi che pure conoscete bene, tal Gianfranco Pacchioni, che ha avuto l’ardire di proporre il titolo seguente: W la CO2. Possiamo trasformare il piombo in oro?Cosa voleva dire il Pacchioni? Dopo aver ricostruito il ruolo complesso e complicato del gas naturale Gianfranco si è messo a ricordare che da esso la chimica è in grado di ricostruire le molecole organiche originali e che dunque questo rischioso gas che troviamo ormai in relativa abbondanza (ma non gratis perché occorre estrarlo e purificarlo) in atmosfera potrebbe diventare una risorsa chimica non banale da cui ricavare, come fanno le piante, molecole utili e complesse, ritornando a giocare dunque un ruolo positivo ed utile.
Questo diede origine subito ad una discussione non banale. Un altro collega impegnato su questi temi, Nicola Armaroli criticò l’approcciò di Gianfranco; ho chiesto a GoogleAI cosa ne pensava e mi ha risposto:
Armaroli è uno scettico riguardo all’idea di Gianfranco Pacchioni di utilizzare l’idrogeno per trasformare l’anidride carbonica (CO2) in sostanze utili o combustibili. Pacchioni, autore del libro “W la CO2”, propone questa soluzione, ma Armaroli, chimico e dirigente di ricerca presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, solleva dubbi sulla fattibilità del progetto a causa delle presunte complessità.
Una volta tanto la pappagalla stocastica non ha allucinazioni; ci sono delle complessità nella negazione della negazione che Gianfranco ha proposto; ci vuole energia e una lunga serie di reazioni chimiche per assorbire il gas dall’atmosfera o dai siti di combustione e tramite la reazione di Sabatier, trasformarla in metano che è più facile e sicuro da stoccare sia dell’idrogeno che della stessa CO2. I costi energetici sarebbero comunque enormi e finora impianti di questo tipo non esistono.
Oggi sappiamo che certi processi si possono fare anche elettro-chimicamente, per esempio con le batterie calcogeno-CO2, che sono capaci perfino di assorbire CO2 e produrre energia contemporaneamente; qui il trucco starebbe nell’aver prima prodotto l’elemento calcogeno scelto (i calcogeni sono gli elementi del gruppo 16 o VIa o 6a) che pure ha il suo costo energetico. Sempre meglio che usare la CO2, come semplice gas che accumula energia nella transizione di fase come ha fatto l’ENI in un piccolo impianto sperimentale in Sardegna (Energy Dome), che comunque non è inutile, ma forse ha troppe limitazioni.
Però il problema rimane: come accumulare energia dalle rinnovabili e coprire le notti e i periodi invernali o comunque le irregolarità produttive inevitabili?
Ho scritto varie volte che ci sono solo due modi: o si costruisce una unica rete mondiale dell’elettricità, come sognava Buckminster-Fuller, sfruttando il fatto che un emisfero è sempre al Sole e un emisfero è sempre in estate (facile da dire ma difficile da fare soprattutto per motivi politici al momento) oppure costruire in ogni paese o blocco di paesi grandi accumuli di energia, la cui scala deve essere gigantesca che dovrebbero avere come dimensione tipica il TWh (al momento non ne abbiamo nessuno) e non sapremmo nemmeno come costruirli. I nostri impianti di accumulo italiani, basati sull’idroelettrico, in un ciclo unico di carica e scarica, in tutto stoccano 0.1TWh; ossia per un ciclo singolo di carica e scarica potrebbero fornire energia per qualche ora a potenza piena, non per giorni o settimane.
La negazione della negazione, proposta da Gianfranco è una possibilità, passando per la reazione di Sabatier o casomai usando l’ammoniaca o qualche altro sistema “semplice” e scalabile; nonostante le inevitabili perdite quella rimane una possibilità.
Certo anche fare batterie elettrochimiche giganti, in flusso o basate su ioni sodio o litio o con metodi non ancora inventati o scalati a dimensione industriale è possibile; il fatto è che non abbiamo molto tempo; la temperatura è GIA’ aumentata di oltre 1.5°C sul livello medio dell’inizio del periodo della Rivoluzione industriale (XVIII -XIX sec.); non possiamo basarci su cose che non esistono ancora, non ne abbiamo più il tempo; se no faremmo la fine di chi continua a sognare la fusione nucleare o le centrali da fissione di generazione n+1; noi siamo Chimici e di solito siamo legati alla “materia bruta” (quella di Levi) e teniamo fede ai patti.
Inoltre abbiamo qualche responsabilità in merito: siamo stati proprio noi a perfezionare le combustioni portandole al livello attuale; e mi piace ricordare che pure lì abbiamo scoperto una negazione della negazione: la fiamma è il simbolo delle combustioni storiche (che a loro volta distruggono il combustibile di partenza e dunque lo negano); beh si è scoperto che in realtà la fiamma non aiuta la combustione ad essere efficiente e l’abbiamo abolita, si è visto che le migliori e più efficienti combustioni sono quelle senza fiamma, flameless. I processi flameless, che aboliscono le fiamme, sono più efficienti di quelli con le fiamme, li negano e li superano. Che ve ne pare?
Bella rivincita per Hegel e gli altri che hanno sviluppato la dialettica (e non pensate solo a Marx ma anche a tanti scienziati della Natura come JD Bernal, R Levins o JBS Haldane, R Lewontin e SJ Gould e tanti altri che non ho il tempo di ricordare).


Ed anche per chi come me ha passato un anno di liceo a leggere la Introduzione alla Fenomenologia dello Spirito. Secondo me Guido se la sta ridendo dovunque sia.
Luce e benessere.
Luigi Campanella, già Presidente SCI
Da chimico ho sempre rispettato il ruolo della luce nei processi biologici che regolano la nostra vita. Questo rispetto si è trasformato in interesse per la fotochimica soprattutto riferita alla fotocatalisi ed alla capacità di alcuni composti semiconduttori di esercitare all’interno di questo processo un ruolo fondamentale di agenti foto-catalizzatori.
Tale ruolo è strettamente correlato alla capacità di alcune radiazioni luminose di promuovere un elettrone dalla banda di valenza a quella di conducibilità esaltando il passaggio di un composto isolante nella categoria dei conduttori. Partendo da questi dati e dalla analisi completa di queste reazioni i cui prodotti secondari sono radicali liberi dell’ossigeno si resta affascinati dal confronto diretto con quanto avviene nel corpo umano.

La luce è essenziale per la vita umana perché regola il nostro ritmo circadiano, influenzando il sonno e l’umore attraverso la serotonina e la melatonina, il primo ormone del benessere, il secondo ormone del sonno.

La luce stimola inoltre la produzione di vitamina D, importante per la salute di ossa e cervello. La luce naturale migliora le prestazioni cognitive e la concentrazione, mentre la luce artificiale può svolgere un ruolo nel trattamento di disturbi come la depressione stagionale e la sindrome del tramonto.
Oltre a benefici fisici, la luce ha un forte valore simbolico, rappresentando la conoscenza, la verità e la salvezza. Nella filosofia infatti la luce è spesso associata alla conoscenza e all’intelletto, guidando l’essere umano verso la verità e la comprensione del mondo.
La luce naturale regola il ciclo sonno-veglia, ma un’esposizione eccessiva alla luce, soprattutto a quella artificiale notturna, può alterare questo ritmo, riducendo la produzione di melatonina e peggiorando la qualità del riposo. La luce naturale favorisce migliori prestazioni in termini di concentrazione, memoria e reattività. L’uso di luci brillanti può essere utile per i malati di demenza, contribuendo a ridurre i sintomi depressivi e il deterioramento cognitivo.
L’eccessiva luce artificiale, soprattutto nelle città, può alterare i ritmi biologici, portando a un aumento delle ore di sonno più tardive e a disturbi del sonno. Da quanto ora detto emerge, come spesso avviene discutendo di fenomeni naturali, che anche rispetto al ruolo della luce mondo animale e mondo minerale, che sembrano così lontani fra loro, in effetti lo siano molto meno di quanto sembri.
Promozione di un elettrone e produzione di un ormone quanto sono sconnessi e distanti??
Consultati:
Luce e benessere: l’influenza dell’illuminazione | Freelight https://share.google/VvJ3IZKbGEsHM097g
Giulia Fabriani, Storia della luce, Il Saggiatore, 2024
Il mistero dello zolfo nello spazio
Diego Tesauro
Lo zolfo è uno degli elementi essenziali negli esseri viventi, presente nei minerali sulla crosta terrestre sia come solfuro che come solfato, oltre che allo stato nativo, e le cui proprietà sono state ampiamente trattate in un post alcuni anni fa. Ma come viene prodotto lo zolfo nell’universo e qual è la sua presenza nello spazio?
La nucleosintesi dello zolfo avviene principalmente per fusione di un nucleo alfa (cioè un nucleo di 4He) con carbonio e ossigeno attraverso la formazione di neon, magnesio e silicio. Il processo richiede alte temperature, per superare la barriera di repulsione elettrostatica dovuta all’elevata carica positiva dei nuclei (si ricorda che lo zolfo ha un nucleo con 16 protoni). Queste temperature vengono raggiunte negli strati più interni, vicino ai nuclei di stelle massicce con più di 8 masse solari. Questo processo avviene nelle fasi terminali dell’evoluzione stellare, poco prima che queste stelle massicce diano luogo ad un’esplosione di supernova di tipo II, espellendo molto del materiale processato nello spazio. Si ritiene quindi che l’abbondanza di tutti gli elementi più pesanti, ma prodotti per fusione nucleare nelle stelle massicce, segua all’incirca lo stesso comportamento durante l’evoluzione chimica galattica.
Lo zolfo gioca a questo punto un ruolo importante nella tracciatura dell’evoluzione chimica della Via Lattea e delle galassie esterne, soprattutto quelle con elevato red shift, cioè quelle molto lontane, quindi che sono nelle prime fasi temporali dell’universo. Tuttavia, le variazioni di abbondanza nella Galassia sono ancora poco chiare perché il numero di misurazioni dell’abbondanza di zolfo disponibili è attualmente piuttosto limitato. In particolare le quantità rilevate nelle nubi molecolari fredde, dalle quali ricordiamo si formano le stelle per collasso gravitazionale, fino ad oggi sono circa mille volte inferiori rispetto a quelle previste dai modelli che lo pongono come il decimo elemento più abbondante nell’universo.
Le osservazioni acquisite spettroscopiche recentemente anche con strumenti, come il telescopio spaziale James Webb (JWST), nella nebulosa molecolare TMC1 (Figura 1) mostrano la presenza di elementi quali l’ossigeno, carbonio o azoto. Ma per lo zolfo si rileva una quantità estremamente ridotta.

Figura 1. Nebulosa molecolare TMC1 situata nel braccio di Orione della Via Lattea (al quale appartiene anche il Sistema Solare) e visibile nella costellazione del Toro, distante dal Sistema Solare 460 anni luce. In questa nebulosa sono state ritrovate moltissime molecole, anche organiche, a partire dagli anni ottanta. E’ sede attualmente di formazione stellare, pertanto è possibile osservare varie tipologie di stelle che sono nelle fasi iniziali della loro evoluzione.
Ma in quali forme molecolari ci si aspetta di trovare lo zolfo?
Dal momento della rilevazione della prima molecola contenente zolfo interstellare, il monosofuro di carbonio (CS) nel 1971, sono state identificate circa 40 molecole contenenti zolfo nel mezzo interstellare (ISM). Nella fase gassosa dell’ISM, queste molecole vanno da semplici molecole triatomiche, come il solfuro di idrogeno (H2S), a molecole più complesse come i tioli (RSH), i tioaldeidi (HCSR), i tioceteni (RCCS), i tioacidi (HSOCR) e le tioammidi (RCSNR’), dove R e R’ sono catene organiche. Nelle nubi dense molecolari, recenti osservazioni nella regione dell’infrarosso medio con il JWST hanno fornito importanti informazioni sulla composizione dei grani ghiacciati. In queste particelle solide sono stati rilevati il solfuro di carbonile (OCS) e probabilmente il diossido di zolfo (SO2) (Figura 2).

Figura 2 Molecole contenenti zolfo identificate nello spazio (Copyright Nature)
La molecola più semplice, che dovrebbe essere presente, è il solfuro di idrogeno (H2S), ma non è stata ancora osservata nei ghiacci interstellari tramite osservazioni nel dominio dell’infrarosso. I modelli chimici prevedono che il H2S sia presente in questi ghiacci. Poiché le analisi infrarosse dei ghiacci interstellari hanno rivelato prove di composti più volatili del H2S (come il metano) ancora presenti nei ghiacci, l’assenza di rilevazione del H2S è probabilmente dovuta alle deboli caratteristiche infrarosse. Poiché le particelle di polvere interstellare e le nubi molecolari fredde forniscono essenzialmente la materia prima per i dischi protoplanetari e i rispettivi sistemi solari, gli astronomi hanno dedotto che le particelle interstellari e le molecole contenenti zolfo sono almeno parzialmente incorporate in comete e altri corpi planetari, mentre le nubi molecolari si trasformano in regioni di formazione stellare
Ora, per gli autori di una recente pubblicazione [1], in questi ambienti estremamente freddi lo zolfo può assumere due forme stabili: una molecola analoga alla forma allotropica presente sulla Terra, cioè un ciclo ad otto atomi di zolfo, e dar luogo alla fomazione dei polisolfani, catene di atomi di zolfo legati tra loro con atomi di idrogeno alle estremità. Il ciclo ad otto atomi di zolfo è favorito dalla reazione della specie diradicalica S2, come discusso da Hoffman e discusso in questo post. Queste molecole potrebbero formarsi sulla superficie dei granelli di polvere ricoperti di ghiaccio, intrappolando lo zolfo in forme solide non rilevabili facilmente dai telescopi.
Le simulazioni condotte in laboratorio hanno ricreato le condizioni del mezzo interstellare, dimostrando che queste molecole a base di zolfo possono effettivamente formarsi. Gli esperimenti di simulazione in laboratorio dimostrano che il H2S può essere convertito su grani interstellari ricoperti di ghiaccio nelle nubi molecolari fredde attraverso l’interazione dei raggi cosmici galattici (costituiti da protoni e nuclei di elio) a 5K in sulfani (H2Sn; n = 2-11) ed effettivamente in zolfo ottamolecolare (S8). I modelli teorici portano alla conclusione che fino al 33% del solfuro di idrogeno può essere convertito in questi prodotti nel corso della vita delle nubi molecolari di 107 anni.
Una volta che le regioni di formazione stellare si riscaldano, queste molecole possono sublimare, tornando alla fase gassosa: a quel punto sarebbe possibile individuarle con i radiotelescopi, quindi a lunghezze d’onda più alte.
Un’ulteriore difficoltà è legata alla natura stessa dello zolfo: le sue molecole cambiano facilmente forma, passando da strutture ad anello a catene ad altre configurazioni. Tuttavia, i ricercatori sono riusciti ad individuare alcune configurazioni stabili che potrebbero diventare i nuovi obiettivi per le future osservazioni astronomiche.
1 ) A. Herath et al. “Missing interstellar sulfur in inventories of polysulfanes and molecular octasulfur crowns” Nature Communications 2025, 16, 5571 https://doi.org/10.1038/s41467-025-61259-2